Rumori
Già di per sé non amava molto starsene a casa, Lety. Lei preferiva gli spazi aperti. E dover rimanere chiusa tra quattro mura (che poi erano molte di più, la casa si sviluppava su due piani e varie stanze), piantata a letto come un manichino con le gambe rotte, per colpa di uno stupido incidente domestico -era la casa che si prendeva la sua rivincita- la mandava ancor più in bestia.
Pensava ai suoi genitori, che in questo momento giravano indaffaratissimi fra i corridoi del Centro Commerciale, scegliendo tutto quello che la sua memoria le rammentava esposto, e anche quello che non c’era, né ci sarebbe mai stato, nelle sale odorose di acciaio e plastica, del grande shopping center.
Pensava a Dario, che non aveva, naturalmente, potuto rinunciare alla partita, si era procurato i biglietti da settimane, e gli erano pure costati un occhio della testa. Sarebbe venuto dopo, e rimasto con lei per la sera. Fino alle 22.30, ché poi gli amici lo aspettavano al pub.
Una di quelle giornate, insomma, in cui avrebbe preferito essere una suppellettile domestica, tanto la funzione era la stessa, e non avere così l’ingombro dei pensieri a farla star male.
Le 4 del pomeriggio, e fuori dalla finestra una giornata incolore, grigiastra. Un silenzio assoluto nella casa, tranne quei rumori al piano di sopra.
Rumori!?
Lety sollevò il busto, e si mise in ascolto. Dal primo piano venivano effettivamente dei rumori, sordi, continui, a tratti striscianti. Un animale che era entrato in casa da una finestra aperta? No, troppo regolari, sembravano quasi dei passi, seguiti da qualcosa che veniva trascinata sul parquet che ricopriva i pavimenti del piano superiore.
Lety era immobilizzata dal terrore. Echi delle fiabe nere che, da piccola, non la facevano dormire, e per le quali voleva sempre una luce accesa, nella sua cameretta. Echi delle notizie quotidiane dei telegiornali, le rimbombavano in testa come i tamburi del Also Sprach Zarathustra di Richard Strauss. Lentamente allungò la mano verso il comodino, a destra, tastando in cerca del cellulare, mentre continuava a fissare la porta della stanza, chiusa, davanti a lei, ai piedi del letto, racchiusa nel rettangolo sbiadito di luce grigia che proveniva dalla finestra.
Prese il telefono e compose il numero dei carabinieri. Ma non successe nulla. Niente carica. Si ricordò di aver lasciato il caricabatterie sul tavolino del salotto. Brava scema! E ora? I rumori continuavano, ma sembravano più lontani, come se la causa si stesse dirigendo verso la scala che portava al pianterreno.
Gocce di sudore gelido imperlavano la fronte di Lety, e dal collo, iniziavano a scenderle lungo le linee delle scapole, e della spina dorsale. Anche i palmi delle mani erano sudaticci, e freddi.
Non c’erano dubbi, i passi, o quel che fossero, seguiti da quello strascicamento sinistramente fluido, stavano scendendo le scale, arrivavano al pianerottolo, riprendevano lungo il corridoio... diretti verso la sua stanza.
Infine si fermarono. Proprio davanti alla sua porta.
Lety non riusciva a chiudere gli occhi, non poteva muoversi, rimaneva lì, con le bracia allungate lungo il corpo, a sfiorare le gambe imprigionate dal gesso che avrebbe dovuto proteggere la loro guarigione, ma era diventata una gabbia che l’immobilizzava, il cellulare inutilmente stretto nella mano.
Lentamente la porta si aprì, e Lety poté osservare la causa dei rumori.
Quello che seguì non fu un bello spettacolo.