Misty Lane
I.
A forza di darmi risposte, trascuravo la domanda che, da qualche minuto, mi ronzava in testa. Colpa della nebbia, che è acqua timorosa di farsi materia, aria troppo superba per evanescere.
Dentro la nebbia, immerso come una sonda senza cappello, cercavo di orientarmi, per localizzare l’indirizzo al quale ero diretto - al quale cento sacchi al giorno più le spese, mi dirigevano - con quella domanda che mi girava in testa come la ballerina di porcellana di un carillon.
Nella nebbia c’è qualcosa di sovrannaturale, dicono: la forma delle cose diventa fluida, e cambia colore. Questo sempre che non si tratti delle luci di una macchina che ti viene incontro, simile a uno di quei draghi delle stampe cinesi, o dei film low-budget anni cinquanta. Oppure, sempre in tema di luci, un riflettore puntato contro la facciata di una chiesa, che nel biancore traslucido si trasforma, e vive del moto di particelle vaporizzate, metamorfiche - un falso movimento, a 18 fotogrammi al secondo, ralenti spettrale.
Certi colori, nella nebbia, parlano (il rosa, l’azzurro, il giallo), altri si cristallizzano (il rosso, il nero, il verde), altri ancora scompaiono (tutte le gradazioni di grigio, dal perla al canna di fucile).
Ragionavo come uno di quei personaggi di Orson Welles, che non sa mai se sia l’eroe, o il cattivo del film, ma “a modo suo, un grande”, per dirla con Marlene. E d’altra parte nemmeno Satanasso ha ben capito, ancora, se Dio è l’Antagonista, o tocca a lui, quella parte.
Ero arrivato infine al mio indirizzo: l’Hotel della Pace, che in realtà era un palazzo semidiroccato, una sagoma scura nella nebbia, un gigante in attesa di resurrezione. Là dentro, strani traffici - almeno così affermava il mio Committente- fra intonaci scrostati e tappezzeria liberty umida e stinta, fra preti scomunicati e donne di malaffare, poeti di strada invalidi e cristalleria bohémienne, scheggiata in più punti.
Mi chiedevo se valeva davvero la pena entrare, per cento sacchi al giorno più le spese, rischiare il culo e l’anima, là dentro. E intanto che riflettevo su quest’ennesima questione retorica, avevo dimenticato la domanda che mi era girata in testa per qualche minuto, come la ballerina di porcellana di un carillon.
II.
“This is the way, step inside”, ripetevo come un mantra, sottovoce, quest’invito, che suonava come il monito dantesco, appropriato al luogo. L’Inferno ai piani alti.
Elegante, in penombra, caldo come il grembo prenatale, silenzioso. Il Paradiso? Una faccenda noiosa, al confronto.
Solo un lungo corridoio, pieno di porte e angoli parcamente illuminati, col pavimento di pregiato legno di ciliegio, coperto da tappeti morbidi e spessi, e alle pareti applique liberty dalle strane forme allungate, su toni opalescenti, rischiarati dal brillare di lampadine a basso wattaggio. Un po’ deserta, la situazione, per essere davvero l’Inferno, a meno che i vari gironi, dietro quelle porte, non fossero insonorizzati meglio degli studi di registrazione di Muscle Shoals.
Procedevo altrettanto in silenzio -avevo anche smesso di canticchiare- e mi pareva fossero passate ore, anche se in realtà dovevo aver fatto solo pochi metri, quando percepii, dietro la curva del corridoio, sulla destra, un tonfo ritmico, non molto forte, ma costante.
Girato l’angolo mi trovai di fronte all’origine del rumore: una bimbetta bionda, scalza e con un vestitino nero a fiori bianchi, e gli occhi di ghiaccio, che giocava a tirare una palla bianca contro la parete, facendola rimbalzare e riprendendola, in silenzio, come tutto, in quello strano corridoio.
Mi avvicinai, e vidi, oltre le sue spalle, una porta, che pareva pulsare quasi fosse viva. Superai la ragazzina - e potevo sentire il suo sguardo glaciale fissarmi le spalle, mentre continuava a gettare la palla contro il muro, e a riprenderla - e aprii la porta, entrando nella stanza.
Tenebre fitte, nient’altro. E un’angoscia palpabile, che mi assalì come uno sciame di calabroni impazziti. Sentii il peso di tutti i peccati del mondo, urlati a pieni polmoni dai rispettivi peccatori. Peccati dei quali conoscevo l’espiazione, e altri dei quali non sospettavo nemmeno l’esistenza. Peccati purgatoriali, mortali, e peccati che nemmeno eternità di eternità sarebbero bastate a purificare.
Saltai fuori dalla stanza, istintivamente, portandomi le mani alla fronte. Era insopportabile. Volevo fuggire, lasciarmi alle spalle la bimba con la palla, ripercorrere a ritroso il corridoio col tappeto di velluto e uscire da quell’Inferno. Mi facevano male le spalle, come se il peso di tutti quei peccati premesse contro le mie scapole.
Poi ricordai. E capii che non potevo andarmene. Dovevo tornare là dentro, dentro la stanza, e immergermi in quel pandemonio, ancora una volta.
Mi girai a guardare la ragazzina, che ora sorrideva, sinistramente, e non tirava più la palla contro il muro. Le ricambiai quello sguardo gelido, col mio, altrettanto freddo, ma in fondo al quale iniziavano già a brillare dei fuochi sacri.
Poi mossi il primo passo verso l’entrata scura della stanza, massaggiandomi la schiena, nel punto in cui, un tempo, c’erano le mie Ali.
III.
C’è una cosa che non ho mai detto a nessuno: non ho paura del buio. E nemmeno della luce estrema. Nel buio, e dove non c’è che luce, non esistono ombre.
Sono le ombre a incutermi terrore, quelle che strisciano lungo le pareti, quando il sole tramonta, e diventano via via più veloci mentre il cielo passa dall’azzurro al grigio cenere, e poi al nero. Quelle che si stampano sui muri a mezzogiorno, nette e precise come la forma delle cose che rappresentano, come le potresti ottenere da un’esplosione nucleare: stampe in due dimensioni di quelli che una volta erano corpi viventi, e dei quali rimane solo la sagoma.
Nelle ombre si nascondono i peccati, e le preghiere in fiamme, urlate da angeli caduti, e semplici esseri umani senza nessun potere, se non quello di peccare ancora, e cercare risposte al fuoco che brucia il loro destino, le loro membra, le loro anime condannate.
Ho paura delle ombre che chiedono perdono, perché, purificate dalla luce, o dalle tenebre, taglieranno ancora la propria carne, e il loro spirito, con lame di ghiaccio - infernale o divino - e moriranno altre mille morti, prima di rinascere trasparenti come vetro, fragili come vetro.
Cantavo una canzone, mentre varcavo la soglia della stanza scura, e mi prendevo in giro. Perché ero convinto che dentro regnassero le tenebre. Ma era il Regno delle Ombre, imprigionate nelle pareti, che si lamentavano, contorcevano quei centimetri di corpo che ancora i muri non avevano digerito; quelle che avevano occhi per vedere mi fissavano, scrutando fra le pieghe della mia pelle in cerca di speranza, o della speranza finale.
E sentivo, nonostante lo spesso tappeto di velluto che ricopriva il pavimento, i passi leggeri di piedi nudi avvicinarsi lenti, e tonfi regolari contro la parete, lungo il corridoio, fuori dalla stanza. E immaginavo quel sorriso sinistro, gli occhi di ghiaccio della bambina col vestito nero a fiori bianchi, attendere che perdessi la battaglia, per aprire il mio petto con le unghie e i denti, e strappare via il cuore dalle arterie per giocarci a palla. Se perdevo la battaglia.
Al centro della stanza - ero troppo distratto dai lamenti dei dannati, per notarlo subito - c’era un treppiede, dove ardeva una fiamma lenta, bluastra. Qualcosa bruciava, sprigionando un fumo evanescente, bianchiccio.
Mi avvicinai, e presi quella pagina, salvandola da eterna consunzione. Era di colore rosso chiaro, e strana consistenza, come fatta di un tessuto elastico, e caldo. Sopra, vergata con caratteri neri, decisi, nella mia calligrafia, la domanda che mi ronzava in testa, mentre sognavo ballerine di porcellana su carillon liberty, prima di entrare nell’Hotel della Pace, e cercare di riavere le mie ali.
Quella domanda che mi ero dimenticato, lasciando scivolasse nell’oblìo, mentre rispondevo ad altre, e che ora ritrovavo su una pagina rossa, scritta con la mia scrittura.
La domanda che apre ogni risposta: “Tu chi sei?”.
IV.
“Tu chi sei?”, quella domanda, segnata di mio pugno sulla pagina rossa, che non ricordavo di aver mai toccato, prima di quel momento, tenne occupati i neuroni, per lunghi istanti, aprendo altre domande.
A chi era rivolta? Potevo averla scritta in una strana trance, durante un’amnesia, o un anamnesi? Ero io l’oggetto in questione? Segnando quella semplice, assoluta domanda, mi ero forse voluto premunire affinché il Sé non perdesse consapevolezza, oppure la ritrovasse, come chi, persi i ricordi a breve termine, segna e appunta le proprie azioni, i volti e i nomi che incontra, per ritrovare traccia del proprio passaggio, fuor di memoria?
O era rivolta a qualcun altro? A una delle ombre di cui quella stanza era pregna, imprigionate nelle pareti, che si contorcevano, urlavano con voci mentali, chiedendo non una liberazione, ma la Liberazione?
Era una preghiera senza risposta destinata a un’entità superiore, a Dio, forse? Non così semplice, no: il Capo si fa leggere la corrispondenza, e non risponde mai, se non per interposta Divinità. E io, con lo Spirito Santo, era un po’ che non messaggiavo.
Questioni assurde, dopotutto, perché filosofeggiando perdevo tempo, e la filosofia non spiega nulla, se non che ogni risposta apre altre domande, e così via, all’infinito.
Sentivo un brivido lungo le scapole, una corrente d’aria fredda, o la scia umidiccia di una lumaca che percorreva i sentieri della mia pelle, lungo la schiena. Improvvisamente compresi che non ero solo, in quella stanza - per quanto solo era un’iperbole, con quella massa di anime dannate a far da scenografia, su tutte le pareti e il soffitto, inglobate nell’intonaco stinto.
Senza neanche voltarmi, sentii che la porta era stata aperta, la bambina scalza col vestito nero a fiori e gli occhi di ghiaccio, mi fissava, tenendo stretta la palla rossa al petto. E non era sola.
Potevo rimanere così, fermo, dandole le spalle, in attesa che la sinistra ragazzina mi saltasse addosso e, strappando la carne dalla schiena, artigliasse il cuore, con le unghie, strizzandolo fino a che anche l’ultima goccia di sangue fosse uscita, sprizzata fuori dalla ferita. Oppure potevo voltarmi, e affrontare l’ignoto.
Ovviamente mi voltai. La bambina era lì. Ma non c’era nessuno con lei. Non è vero, qualcosa c’era, una strana perturbazione nell’aria, alla sua sinistra, come un’opacizzazione, una vibrazione nelle molecole di idrogeno e ossigeno.
“E’ il mio doppio”, pensai subito, “l’altra parte di me, che ha scritto quelle parole sulla pagina rossa”. Ma subito scartai l’ipotesi. E’ vero, si muoveva in maniera direttamente consequenziale alla mia. Se mi spostavo a destra ’lui’ (o ’lei’, o ’esso’) si muoveva a sinistra. Se sollevavo una mano anche ’lui’ (o ’lei’, o ’esso’) la sollevava. Ma c’era una specie di ritardo, nei suoi movimenti, non stavo osservando me stesso attraverso uno specchio oscuro. Quella vibrazione nell’aria, quella ’cosa’, si prendeva gioco di me. E la ragazzina rideva, sinistramente, solo con la bocca, perché i suoi occhi di ghiaccio erano pozze di indifferenza assoluta.
Misi la pagina rossa nella tasca del cappotto, e mi accesi una sigaretta. Ovunque fossero le mie Ali, dovevo passare oltre quelle due figure spettrali che occupavano il vano della porta, per continuare a cercarle.
Liberarsi della ragazzina era facile: un paio di calci nel culo e si sarebbe fatta da parte, lei e la sua maledetta palla, e quel sorriso sinistro del cazzo. Con l’ectoplasma il lavoro poteva presentare maggiori difficoltà.
Ma ero provvisto anche di una buona riserva di calci che agivano sul piano spirituale.
V.
Soffiando via un paio di anelli di fumo dalla bocca, continuavo a fissare la ragazzina scalza con il vestito nero a fiori bianchi, e gli occhi di ghiaccio, aspettando fosse lei a fare la prima mossa. Alla sua sinistra, di fronte alla porta che mi separava dalle mie Ali, la perturbazione vibrante nell’aria non aveva cambiato forma, né dimensioni. La bimbetta sosteneva il mio sguardo, rispondendo con un sorriso, sottile come una lama di stiletto.
Poi, con un movimento lento, quasi impercettibile, lasciò cadere a terra la palla, che rimbalzò sul pavimento di legno, e tornò fra le sue mani. Non l’averei giurato, nemmeno sotto tortura, ma mi parve di udire qualcosa simile a un lamento, quando la sfera rossa toccò terra.
La ragazzina lasciò cadere di nuovo la palla, questa volta accompagnandola con la mano, e stavolta udii distintamente un urlo, uscire dall’interno del globo di gomma, un grido di dolore. Non ebbi modo di riflettere su quel fenomeno, perché, appena la palla tornò nelle sue mani, la bambina me la lanciò addosso con forza, mirando alla faccia. Istintivamente alzai le braccia, afferrando il pallone, una perfetta presa da campionato di serie B. Subito me ne pentii.
La palla era calda, umida, nonostante la liscia superficie riflettesse in maniera fredda e asciutta. Ma fu guardandola più da vicino, che un brivido mi scivolò su per la schiena, esplodendo nelle scapole, come aghi di ghiaccio scheggiati via da una stalattite: dentro quella sfera si muovevano delle figure, ombre serpentiformi, che sembravano voler assumere le fattezze di un viso. Un viso che mi parve di conoscere.
Quell’attimo di distrazione imperdonabile mi fu fatale. La ragazzina si lanciò contro di me e, prima che riuscissi a darle quel famoso paio di calci in culo, che l’avrebbero rimandata dietro la lavagna a piagnucolare clemenza, mi spinse verso la perturbazione vibrante, che non si era mossa, né aveva cambiato forma.
Passai attraverso quella strana anomalia, e l’anima mi usci da ogni poro e orifizio, andando a spiattellarsi contro le pareti, dove i dannati si lamentavano, implorando Liberazione. Vagai per millenni in quel caos non euclideo, assurdamente buio nella luce accecante, con cose senza dimensioni che mi accarezzavano la pelle, fredde in maniera urticante, come fiamme gelate.
E infine giunsi a Te. E finalmente Ti fissai negli occhi. Tu, che battevi su quei tasti, davanti a quello schermo rettangolare, sollevando di tanto in tanto lo sguardo per controllare che il flusso dei Tuoi pensieri corrispondesse alle parole scritte, mentre prendevano forma sul foglio Word. Tu che decidevi cosa avrei messo sotto il cappotto, se avrei messo il cappotto, chi avrei incontrato, se fossi morto o rinato, alla prossima puntata. Tu che hai scelto per me mille nomi, ma in realtà ero sempre io, Tu che già sapevi perché, e come, avrei trovato la pagina rossa con quelle parole scritte sopra, che Tu avevi scritto, con la mia calligrafia. “Tu chi sei?”, e già sai che sorriderò, pensando di nuovo a quella domanda, perché hai deciso che sorriderò, pensandoci. E allo stesso modo sei Tu, ora, a mettermi questo pensiero in testa -o forse no, forse questo pensiero è mio, e mio soltanto-, quest’idea incredibile, che rende meno assurda la Rivelazione: non troverò mai le mie Ali strappate, perché non le ho mai perse.
Perché IO sono le Tue Ali, Autore. Io sono Te, la parte di Te che ami, e pensi meriti il Paradiso.
Buona fortuna, Roberto, dalla Tua Creatura.
Dopo i Titoli di Coda.
Rimasta sola nella stanza, la ragazzina scalza col vestito nero a fiori, lanciò un ultimo sguardo alle pareti, che avevano riassunto il loro naturale colore bianco, simili a schermi spenti, finito il film.
Sorrise, e nei suoi occhi non c’era più traccia di gelo - se mai ve n’era stato - ma un’antica comprensione, e un velo di maliziosa pietà.
Si avvicinò a piccoli passi alla palla rossa, che giaceva a terra, ferma nell’equilibrio assurdo prerogativa di ogni corpo sferico, compresi i pianeti, e la raccolse. La rigirò tra le piccole mani un paio di volte, sorridendo, poi la poggiò sul treppiede al centro della stanza, che era il suo posto naturale, da millenni.
Infine si diresse verso la parete opposta a quella della porta d’ingresso, e la sfiorò leggermente, in un punto a circa un metro e mezzo dal pavimento. Un rumore armonioso, come un diapason che risuonava nell’acqua, e la porta nascosta dell’armadio nel muro si aprì.
Scostando alcune scatole, e pile di indumenti, prese, e indossò, un paio di calzini bianchi e le scarpe da tennis basse, provandone poi la solida resistenza sul parquet di scuro ciliegio, tacco, punta e pianta, due, tre volte.
Chiuse l’armadio, spingendone l’anta con due dita, e si diresse verso l’ingresso, sempre sorridendo, e con passi che sembravano un balletto da carillon d’altri tempi. Uscì dalla stanza e serrò a chiave la porta, dietro di lei.
Mentre si allontanava lungo il corridoio, rischiarato dalle lampade liberty azzurre, e dal sole che iniziava a filtrare dai lucernari, invisibili finché era ancora notte, Calliope non poté fare a meno di chiedersi, ancora una volta, come mai dopo tutti quei millenni, gli Autori avessero ancora bisogno di Lei, e delle Sue otto Sorelle, per tirare fuor di fantasia, le loro stupide storie.